LO STRANO SENTIMENTO DEL PRIVILEGIO(La storia di “Torna a casa” e della nostra Nuova Speranza)
Pubblicato sulla pagina fb C+C il 3 gennaio 2018
Londra, 24/10/17Due anni fa esatti entravamo per la prima volta in una sala prove sperduta tra le colline veronesi. Era il periodo in cui stavamo sgomberando definitivamente dalle nostre cose la casastudio di Vaggimal e il nostro disco “Fluttarn”, l’ultimo lavoro prodotto tra i monti, era in via di pubblicazione. Avevamo trovato questa sala prove decisamente selvaggia ma accogliente in cui cominciammo a esplorare una nuova maniera di suonare. Nei mesi precedenti avevamo girato come power trio (io, Pippo, Niccolò) ricercando una nuova dimensione dopo la non facile dipartita di Ambro, che levando dal gruppo tutte le sfumature che il flauto, le tastiere e la sua voce potevano aggiungere, ci aveva portato a oscillare dal atmosfere molto distorte (in quel periodo passammo pure da un festival stoner tedesco nascosto nella Foresta Nera chiamato Freak Valley!) fino a blues secchi e ossessivi memori del Capitano Cuoredimanzo. Dopo un po’ di ricerca tra vari amici e musicisti locali invitammo il nostro amico Camillo a far parte della banda per il Fluttarn Tour e ad ampliare il nostro sound con i suoi svariati synth e tastiere. Cosa che fece per 108 date, ovvero un anno e mezzo di tour, e per cui gli saremmo eternamente grati. Oltre alle canzoni di “Fluttarn” c’era anche un nuovo brano che avevo composto dopo un’osservazione del nostro amico Miles: perchè avete tutti quegli accordi e cambi di tonalità? Così non riuscite a rilassarvi e a concentrarvi per entrare dentro l’atmosfera del brano! La musica degli artisti che amate è spesso basata su uno, massimo due accordi! Provate! Non siete mica una band prog!Ed effettivamente per anni avevamo portato avanti una musica che ispirandosi dal pop barocco e la psichedelia inglese che spesso sfociava in tendenze progressive avevamo perso di vista l’immersione nella nostra stessa musica. Come fare a tornare all’origine di tutto? Come fare a scordare chi siamo, con tutte le sovrastrutture che abbiamo attorno e dentro di noi? I problemi attorno al fare musica, a stare in un gruppo, a far funzionare le cose non devono “essere” la Musica. Non sono la MUSICA. E non devono venire prima della MUSICA. Erano anni che avevamo perso il focus sul vero motivo per cui avevamo cominciato a fare quello che stavamo facendo.Su due accordi, un re maj7 e un si minore, ripetuti all’infinito, mi ero messo a canticchiare solo tre semplici parole: “Go Back Home”. Torna a casa. La sala prove dove andavamo ormai tutti i giorni si trovava in mezzo a degli ulivi sopra Avesa, su una stradina tortuosa piena di tornanti che portavano a uno dei centri di accoglienza più grandi di Verona, Costagrande. E ogni giorno sulla strada incontravamo decine e decine di rifugiati che facevano quel tragitto avanti e indietro per raggiungere la città (scendendo) o tornare a Costagrande (salendo). Qualcuno in bici, quasi tutti a piedi. Un cammino di almeno due ore per loro, e che noi fortunati facevamo in macchina in 10 minuti. Ogni tanto quando avevamo qualche posto libero in macchina accompagnavamo qualcuno fin sù e poi andavamo in sala prove. Un saluto, un sorriso, qualche parole, spesso in inglese, a volte in italiano, quasi sempre un gesto che comunica tantissimo senza aggiungere altro. Poche volte, quasi mai, il dolore è stato ostentato. Nonostante fosse lì, sempre presente. C’era sempre una felicità, una gioia, una contentezza rara per quanto ci riguarda, a noi fortunati, che diamo tutto per scontato, e anzi ci lamentiamo. Chiudendo le porte, le finestre, i ponti.Era la prima volta in anni che mi rendevo conto che il cambiamento era in atto. Stava succedendo proprio in quel momento. Il limite era stato superato, anche il confine. Finalmente. I miei amici iniziavano a lavorare nei Centri di accoglienza (scoprii che a Verona ce ne sono veramente tanti) e io iniziavo a vedere africani e stranieri ovunque. Non era più qualche amico di amici che avevano conosciuto in giro. Che faceva parte di qualche comunità nigeriana nascosta in quartieri marginali della periferia. No. La realtà iniziava ad essere visibile a tutti. Anche per chi aveva cercato per anni di negarla, oscurarla, ignorarla, ostacolarla, odiarla. Questo era ed è il presente, e l’inizio del futuro.In quello stesso periodo avevo cominciato ad aiutare il nostro fratello americano Miles ad ottenere il visto italiano. Un’odissea durata nove mesi. Un iter assurdo che è stato un casino per me, per lui e per gli amici che ci hanno aiutato che mi sembrava e sembra tuttora una follia. Settimane spese a capire che carte inviare, chi telefonare, chi convincere, di chi fidarsi e su chi contare. Eppure tutti quelli che lavorano in un centro di accoglienza ci confermavano: è un casino certo, ma non è niente a che vedere con l’odissea di chi viene dall’Africa, o dal cosiddetto Terzo Mondo. Lui è americano. E infatti ora il visto ce l’ha. E ancora una volta ci confrontavamo con lo strano sentimento del privilegio. Noi sì e loro no. Perchè? La risposta è semplice. E fa male. Fa male vivere nel privilegio, quando ce ne si rende conto.Fino a due anni fa non avevo mai pensato a nulla di tutto ciò. Ero nella mia bolla di autoriflessione votata a cercare un’identità personale, ad affermarmi in quello che credevo fosse il mondo e la società dove voleva affermarmi. E i C+C con tutto il loro mondo connesso (l’etichetta e lo studio Vaggimal, gli eventi etc) erano stati l’estensione di un sogno adolescenziale che voleva scappare dal mondo adulto, sempre più vicino, più serio, più grigio. Ho sempre visto l’università come quel limbo che ti prepara al mondo del lavoro. E quindi mi ero sempre rifugiato in un mondo di psichedelia leggera e profumata, colorata e confortante, tra amici di una vita e nuove conoscenze che venivano anche dall’altra parte del mondo. Si scappava dalla città per rifugiarsi sui monti, dove questo grigiore e questa serietà non ci potevano trovare. Ma questo incantesimo è durato quel che poteva durare. Abbiamo sognato, abbiamo chiuso gli occhi e suonato organetti davanti al camino tutta la notte per anni fino a che un giorno la realtà ha bussato alla porta. La realtà era quella del lavoro “vero”, dell’università “che devo finire se no i miei si incazzano” e che con la musica “non ti mantieni”. Così quando la magia se ne era andata e ci ritrovavamo decimati, stremati e senza rifugio l’unica cosa da fare era rimboccarsi le maniche e aprire veramente gli occhi. Credo che l’accecamento iniziale sia stato decisamente forte. Essere un power trio che non sa suonare veramente rock e forse non lo vuole neanche è stato a suo modo ridicolo. Talvolta divertente, spesso straniante. Ma era fondamentale per andare oltre. Per chiarire alle nostre menti che quello che vedevano i nostri occhi era un altro mondo. Probabilmente il vero mondo. Il mondo è uno, la realtà pure. Basta decidere come vederla. La nostra visione era stato dolcemente distorta. Ed ora avevamo finalmente la possibilità e l’occasione di rivedere tutto. Dovevamo rivedere tutto. Era un obbligo morale per cui iniziavamo a capire che le cose stavano cambiando. In noi stessi e nella realtà in cui ci trovavamo.Per la prima volta dopo tanto tanto tempo ho condiviso agli altri ragazzi il vero senso di quel brano in maniera che ognuno visualizzasse una sensazione, un qualcosa di sentito nell’atto comune di suonare. E da lì iniziammo una riflessione che pian piano ci ha portato a dove siamo ora.Iniziò un lungo tour, meraviglioso, in cui esplorammo tutta la nostra musica portandola verso nuovi lidi, arrangiando e cambiando continuamente suoni e brani, improvvisando sempre di più e ampliando la nostra coscienza come mai avrei pensato. Siamo arrivati a suonare concerti totalmente improvvisati dalla prima all’ultima nota. E da tre che eravamo rimasti siamo finiti con due batterie dando il benvenuto all’amico di una vita Giulio Deboni, con musicisti provenienti dalla California e dal Senegal (i fratelli Miles & Alioune), senza contare i numerosi guest che abbiamo incontrato sulla strada (come Hakon dalla Norvegia ed ex-Motorpsycho, i Babau, Laura Agnusdei, Alessandro Cau).La presa di coscienza interiore ed esteriore ha intensificato ogni azione e ogni sentimento da condividere. Ogni canzone, ogni concerto e ogni collaborazione per noi è sacra, enormemente importante e fondamentale. Se no non lo faremmo. Non saremmo ancora qui con un progetto iniziato quasi dieci anni da dei ragazzini quasi ancora adolescenti (quando con Pippo e Ambro abbiamo pensato per la prima volta al nome C+C avevo 20 anni).Ho scritto il testo la notte prima di andare a registrarla il 15 luglio (2017) dell’estate appena passata. Per mesi ho cantato quelle tre parole, le abbiamo urlate ed interiorizzate, mentre il mondo si muoveva e noi sopra con lui. Go. Back. Home. Torna. A. Casa. Tutti capivamo cosa voleva dire. Tutti avevamo vissuto le stesse intense cose. Tutti avevamo visto cosa era successo e cosa stava succedendo. I ragazzi mi hanno spinto a mettere in forma scritta quell’avventura e quel percorso. E così poche ore prima di svegliarmi per andare a registrare quelle note che hanno iniziato ancora una volta un nuovo percorso è venuta fuori “Torna a casa”, due anni dopo averla strimpellata per la prima volta nella mia casa in Valdonega dove vivevo allora. Ora a distanza posso vedere in quella canzone, in quei due accordi e in quelle tre parole tante cose e tante sensazioni che mi rischiarano la mente. Ora abbiamo capito che è importante cantare nella nostra lingua. Perchè dobbiamo parlare col cuore. Senza filtri ed estetismi. Dobbiamo arrivare alla gente. Che siano italiani che possono capire le sfumature della lingua, o senegalesi che possono cogliere il tremolio della voce e null’altro. Già, la voce. Miles in queste canzoni da lui prodotte ha specificatamente concentrato gli sforzi sulla voce. Basta cori e mille armonie come è sempre stato nella nostra precedente produzione. Bisogna riportare tutto alle origini del sentimento, del messaggio, della melodia. Basta echi e riverberi ad amalgamare tutto. No, la voce sta davanti. Ti canta in faccia senza alcun altro suono e distrazione. Ci siamo solo noi che cantiamo e suoniamo secchi e presenti. Che cantiamo di una casa che non è un luogo fisico ma un concetto mentale che ognuno ha il diritto di poter ricercare ovunque. Come lo stesso Miles che scappa dallo spietato capitalismo americano per trovare casa a Verona con noi. Come Alioune dal Senegal che dopo decenni di pellegrinaggi ha trovato conforto in questo strano posto che è il Veneto. Come tutti i rifugiati che stiamo conoscendo in questi mesi partecipando attivamente a Stregoni, il progetto più forte e importante di cui abbiamo mai fatto parte. E così abbiamo anche cantato della natura che continuiamo a dimenticare, a dare per scontata, a offendere e deturpare. Che Giulio, da vero agricoltore e favolista, ha immortalato in “Averla”. E poi ovviamente il motivo per cui ci siamo resi conto che noi siamo qui. Questa “Nuova Speranza” che ci porta a superare ogni giorno, come ha scritto Niccolò. A svegliarci la mattina e combinare qualcosa, per noi e per chi abbiamo attorno. La forza che ognuno ha dentro, e che abbiamo il dovere di donare a chi vediamo in difficoltà. E che a sua volta potrà donarci tantissimo, in questo scambio costante.Due anni da allora e ieri la mia regione ha votato all’unanimità un referendum per rendersi indipendenti. Non mi stupisce. Mi preoccupa, certo. Ma questo non ci ferma, anzi. Noi continuiamo sulla nostra strada. Che è sempre più affollata, colorata, piacevolmente rumorosa e decisamente accogliente.Tobia"Se la casa è una cosa che sta vicina a chi seiogni cosa in cui trovi te stesso è la casa che vuoise le mura non sono un riparo ma oscuran lo sguardocon i piedi puoi andare dovunque puntando gli occhi in altoperciò torna a casa, torna, torna a casaora casa è la cosa dove essere davvero chi seiogni cosa in cui trovi te stesso è la casa che vuoiperciò torna a casa"(Testo della canzone scritto la notte del 15 luglio 2017 a Veronetta)Video: "Torna a casa"tratta da "Nuova Speranza ep" (Trovarobato 2017)Alioune Slysajah e Rasman Jo nel ruolo di se stessiRiprese di Giulio DeboniMontaggio di Giuseppe Lanno